L’aggressività, linguaggio estremo


Come possiamo contenere l’aggressività “esagerata” di nostro figlio al fine di garantire fluidità alla sua e nostra vita familiare e sociale?

L’aggressività esagerata di nostro figlio avrà sicuramente delle motivazioni: e allora cerchiamo di capire ciò che comunica.

L’aggressività difende un piacere potentissimo, si rappresenta con l’andare in avanti, con l’esplorazione e con la voglia di dominare.
E’ la prima cosa che ci viene in mente quando si parla dell’aggressività: una forma di controllo del territorio.
Gli animali ad esempio marcano il territorio con il cinguettio, con il canto, con il ruggito, a volte con gli escrementi. I bambini, come tutti gli animali, si sentono particolarmente esposti ai pericoli della precarietà e /o  fragilità.
Percepiscono la precarietà come condizione di base dell’esistenza. Il “loro” spazio territoriale coincide con l’area della madre, dei genitori. Ma molte volte ciò non basta: “quel territorio che è margine di sicurezza”  per nostro figlio è un posto pericoloso, lo “sente”, lo percepisce  pericoloso: per informare della sua presenza al posto del canto, del ruggito usa il gesto che abbia il senso della provocazione e dell’aggressività, se ciò accade l’obiettivo è raggiunto: “Mamma mi vuoi bene?”, “Si, certo”, “Anche se rompo? E allora rompo, distruggo, voglio proprio  vedere se veramente mi vuoi bene”. E’ una provocazione continua: nostro figlio ci comunica che lui non si fida della quiete, della serenità, ha bisogno di metterla continuamente in pericolo per sentirsi padrone e protetto dalle beffe, dagli  scherzi del destino e, chissà, dalle bugie dei genitori. L’aggressività è il linguaggio estremo, esaltato, ma comunica sempre  la diffidenza.

Come intervenire?

Si può solo con interventi miranti a modificare il livello di soglia dello stato di precarietà incombente, da cui lo stato di continuo eccitamento e dunque l’insonnia, poi la difficoltà a mangiare cibi nuovi e non parliamo dell’andare al bagno da soli, o ancora peggio lavarsi. L’unico appiglio sembrano essere gli eventi sportivi, e la spasmodica ricerca di simboli vittoriosi. Se poi si è in società per nostro figlio i pericoli della precarietà aumentano, lo spazio territoriale risulta in pericolo per le continue invasioni e allora l’aggressività, lo scompiglio e le richieste assurde si fanno più sentire.

L’aggressività rappresenta un parametro di base dello psichismo umano, fonte di esplorazione basilare; quando l’aggressività supera un livello di soglia e diviene invasività e aggressione, allora si trasforma in messaggio che il bambino invia in maniera primitiva richiedendo una teoria (del genitore) pronta a dare un senso al sentimento proposto; altrimenti si innesca un modello mentale che darà significato alle crisi dell’esistenza sempre tramite il gesto rabbioso, piacevole e risolutivo.

Il genitore che reagisce con altrettanta rabbia o contenimento non fa altro che cronicizzare un sentimento che, al pari del pensiero e dell’affetto, fabbisogna di una capacità di utilizzo non innata. Significa che nostro figlio ha bisogno di una psicoterapia, e i migliori terapeuti sono i genitori che dovranno riparare un mondo interno infantile lacerato dalla fantasia di perdita e di abbandono se non di beffa e di fregatura: chi meglio del genitore può riparare l’intimità che è carente? Perché i genitori non debbono raccontare ai figli la loro storia?
Sul piano clinico è la più potente psicoterapia che può essere fatta purché sia sincera e reale.
Se il figlio conosce la storia dei genitori si sentirà maggiormente protetto e così potrà anche lui raccontare la sua di storia, quella fatta dai suoi fantasmi che lo rendono precario e impotente al punto da costringerlo ad essere aggressivo e sempre pronto a difendere il territorio. La prima cosa da attuare è il monitoraggio costante della sua rabbia, chiedendogli di nominare la sensazione provata, e contrapponendo alla teoria rabbiosa la propria di dolore di fronte all’attacco piacevole e iroso del figlio.
E’ importante inoltre che il genitore racconti il suo sogno al figlio così sarà il figlio, di conseguenza, a raccontare i suoi incubi: sono i primi segnali di pericolo della sua attrazione per tutto ciò che è aggressivo, pericoloso; ma già solo nel raccontarlo si comprende che quell’attrazione per il pericoloso diventa superabile e non necessariamente da applicare. Solo così nel tempo l’intimità diventa rapporto e territorio dove poter vivere al sicuro.
La verbalizzazione dell’evento tramite il dialogo e lo scambio diventerà nel tempo un modello che il bambino potrà far proprio ed utilizzare quale strumento relazionale: dichiarare la propria rabbia piuttosto che agirla soltanto.
L’utilizzo del gioco appare infine uno strumento basilare per investigare il significato nascosto dietro il gesto iroso: dalla rabbia, dunque, alla creatività.